In ricordo del cardinale George Pell, straordinario testimone di Cristo
di David Cantagalli
Alla notizia della morte del cardinale George Pell, confesso mi ha molto colpito il fatto che diversi media abbiano preferito ricordarne anzitutto gli episodi di condanna e il successivo proscioglimento. Non mi meraviglia tanto il fatto che per esigenze di mercato e di audience la memoria del cardinale venga associata ai processi che ha subito – oggi purtroppo viviamo in un’epoca ove tutto è finalizzato a solleticare la curiosità del pubblico e a fare gossip –, quanto il fatto che in pochi in prima istanza abbiano sottolineato la sua grande levatura umana e spirituale. In un tempo mediocre, ove vige la legge della superficialità, dell’utilità e della convenienza e in cui la dignità, il coraggio e la fedeltà a un ideale sono diventate ormai virtù eroiche, preferisco invece ricordarlo per la sua grandezza di sacerdote e di uomo. Egli è salito sul patibolo che lo aspettava con la stessa dignità di tanti martiri che lo hanno preceduto, con la stessa forza e bellezza del figlio di Dio che ha accettato la passione come un calice amaro che non poteva essere evitato.
Mi tornano in mente le parole che Oscar Wilde scrisse durante il periodo della sua carcerazione. Riflettendo sulla sua sofferenza, così abietta e contraria alla bellezza e alla perfezione estetica che aveva potuto sperimentare nella sua vita, è illuminato da un’intuizione straordinaria: la passione e la crocifissione di Gesù sono la massima espressione di perfezione e di bellezza. Scrive così: «Nella vita di Cristo, dolore e bellezza si possono fondere nella loro manifestazione piena di significato […] Non ho alcuna difficoltà a credere che il fascino della sua persona doveva essere tale da poter dare la pace alle anime tormentate con la sua sola presenza e che coloro i quali gli toccavano la tunica e le mani dimenticavano le proprie sofferenze; e che, quando egli passava sulla grande via della vita, uomini che non avevano mai visto nulla nel mistero di vivere, ad un tratto si sentivano aprire gli occhi ed altri, rimasti sempre sordi a tutte le voci, tranne che a quella della voluttà, udivano per la prima volta la voce dell’amore».
Io credo che il cardinale Pell abbia saputo testimoniare al mondo intero questa perfezione e questa bellezza insite anche nella sofferenza. E riflettendo su quanto gli è accaduto non si può non considerare come egli fosse certo che Dio non lo ha mai abbandonato, gli è stato sempre accanto, vicino. Non si può pensare che il cardinale non abbia avuto momenti di sconforto o non abbia sperimentato anche lui una notte, la stessa di molti mistici, ove Dio sembra averci abbandonato, una condizione ove Dio sembra non esistere. Non c’è uomo che possa sopportare il peso di un’ingiustizia, la stessa che ha subito Pell, solo per convinzione personale o ideologica, o perlomeno non può farlo con la forza e la serenità che hanno accompagnato il cardinale. Una forza paragonabile a quella di tanti cristiani che ieri come oggi hanno accettato la sofferenza, spesso la morte, con la certezza che Dio era lì, accanto a loro. E mi ritorna in mente anche il martirio dei 21 giovani cristiani copti decapitati dall’Isis sulla spiaggia di Sirte, in Libia, ove la dignità e la forza dello spirito hanno spazzato via l’abominio di quello che hanno subito.
Credo quindi che il cardinale Pell vada ricordato soprattutto come uno straordinario testimone di Cristo, come un fedele servitore della Chiesa, un uomo di Dio, un sacerdote che ha mantenuto fede, sino alle estreme conseguenze, alla promessa, fatta a papa Giovanni Paolo II che lo creò cardinale il 21 ottobre 2003, di fedeltà alla Chiesa sino all’effusione del sangue.
Quanto il cardinale Pell ha vissuto è la misura della sua fede. Egli è stato una traccia evidente lasciata da Cristo. E a ben guardare si poteva scorgere al suo fianco la presenza del Figlio dell’uomo.
«Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10).
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